Talal Khrais (Beirut)/Redazione Assadakah - Il Libano attraversato da una crisi economica e finanziaria che ha ridotto i libanesi all'estrema povertà non ha pace, ma non c’è nessun rischio di guerra civile. La situazione è certo peggiorata dal 4 agosto 2020 il giorno dell’esplosione, tra la più potente nel mondo nel porto di Beirut causando la morte di 207 morti, 5000 feriti e la distruzione della grande parte del centro storico della capitale.
Ieri sei persone sono rimaste uccise e diverse altre ferite a Beirut negli scontri scaturiti durante le proteste contro Tarek Bitar, il giudice principale che si occupa delle indagini sulla devastante esplosione del 4 agosto 2020 al porto della città. Il giudice viene accusato da Hezbollah e dal movimento Amal di aver "politicizzato" l'inchiesta sulla sciagura, e i ministri di Amal hanno minacciato di lasciare il governo.
La manifestazione era stata indetta da Hezbollah e dal movimento Amal per chiedere la rimozione del giudice che guida le indagini sull'esplosione al porto a sua volta contestata da altri libanesi che ritengono giusto l'operato del Giudice Bitar. L'esercito ha arrestato 9 persone.
Le Forze dell'Ordine hanno sotto controllo la situazione la vita è ritornata alla normalità io sono in Libano e non vedo ragione di preoccuparsi più di tanto.
Il Libano sta certo attraversando una fase estremamente critica della sua storia attuale. La crisi attanaglia la popolazione già allo stremo, dopo anni di stenti e sacrifici, e una estenuante lotta alla povertà come conseguenza della corruzione che ha eroso per anni il tessuto sociale. Nonostante questo, e gli esempi non mancano, la multietnica gente del Libano non ha mai mostrato segni di cedimento, e si è sempre mostrata esempio di coesione all’insegna della diversità, quando si è trattato di salvaguardare la propria quotidianità e il proprio futuro, anche di fronte a episodi come la devastante esplosione al porto di Beirut il 4 agosto 2020. Valori che ogni volta hanno avuto, e hanno, il loro prezzo da pagare, sottoposto alla sempre e comunque presente “Ragion di Stato”.
In questi giorni, il prezzo è stato di sei vittime e oltre trenta feriti, per le proteste contro il giudice Tarek Bitar, responsabile delle indagini che, dall’episodio del porto, si sono allargate a ramificazioni che scuotono le fondamenta del Paese e non solo.
La manifestazione, davanti al Palazzo di giustizia, era stata indetta da Hezbollah e Amal, e chiedevano la rimozione del giudice.
Non è chiaro cosa abbia scatenato gli spari. Un giornalista della AP ha visto un uomo aprire il fuoco con una pistola, durante la protesta, e altri uomini armati sparare in direzione dei dimostranti dal balcone di un edificio, confermando la presenza di cecchini non identificati, come denunciano i comunicati di Hezbollah e Amal. Pare che siano iniziati gli spari e che siano stati intesi come una vera e propria aggressione di gruppi armati organizzati, con lo scopo di causare una sommossa si base etnico-culturale, visto che gli scontri sono avvenuti per altro nelle strade del quartiere cristiano
Secondo la ricostruzione i cecchini miravano alla testa dei manifestanti, ed erano appostati sui palazzi nei pressi della rotonda di Tayyoune, e sugli edifici del quartiere cristiano maronita di Ayn Remmane, che non condivide la linea di Hezbollah e Amal, i quali hanno le loro basi logistiche nel confinante quartiere sciita di Shiyah.
Tarek Bitar, il secondo giudice a guidare l’indagine sulla tragedia in cui morirono quasi duecento persone, è accusato di prendere di mira il fronte politico di Hezbollah per gli interrogatori, sebbene nessun funzionario che fa capo a Hezbollah sia stato coinvolti nell’inchiesta in corso da oltre un anno.
Il primo ministro, Najib Mikati, in una dichiarazione ha lanciato un appello alla calma, ha invitato a non farsi trascinare in un conflitto civile, e ha chiesto anche l’arresto dei responsabili, perché al nuovo governo serve una soluzione per portare il Paese fuori dalla crisi economica, priorità assoluta, il che implica una riforma che blocchi la corruzione e faccia rientrare nel Paese gli enormi capitali portati all’estero. In ogni caso, la richiesta per la ricusazione del giudice è stata respinta dall’esecutivo.
Certo, il rischio di un conflitto non è da sottovalutare, soprattutto se è strumento politico, ma il Libano non è un Paese in guerra. La comunità internazionale deve cooperare per fare il modo che il Paese dei Cedri torni ad essere quella perla che è sempre stata, e che ora è solo coperta da uno strato di polvere che bisogna soffiare via.
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