Redazione Assadakah – Dato per certo che la lettura ha ormai lasciato il podio alla cultura del video, negli ultimi dieci anni, il cinema si è adattato al nuovo corso, soprattutto in Medio Oriente.
L’Egitto, riconoscimenti di livello internazionale hanno premiato un Paese sempre notevolmente prolifico in questo senso, nel nuovo corso seguito all’onda della Primavera Araba. Le vicende della recente storia siriana hanno invece dato origine a una corrente che propone una contro-versione sui moti rivoluzionari e la guerra civile. Perfino in Yemen, ancora funestato da un drammatico conflitto, è stata distribuita la prima produzione nazionale dopo anni. Diverse altre proposte vogliono ripercorrere i grandi momenti di quella che gli “addetti ai lavori” definiscono una “straordinaria utopia sociale e politica”.
Il fulcro del cinema mediorientale è notoriamente l’Egitto, dove ci sono diversi autori e registi affermati, fra opere di rilievo come “The Yacoubian Building”, realizzato nel 2006; oppure “Heya Fawda” (“Caos”) del 2007; e ancora “Aquarium” (2008), che valorizzano la onirica sete di libertà della persona, a prescindere dal colore della pelle, del credo religioso, della provenienza sociale o culturale.
Molti nuovi talenti sono nati dalle manifestazioni di protesta del gennaio 2011, con la ben presente vitalità che ha caratterizzato quei venti giorni di Piazza Tahrir, e la speranza che si intravvedeva dietro le grida che inneggiavano alla fine del regime Mubarak dopo 30 anni. Da ricordare, nel 2011 al Festival di Cannes, la pellicola “18 Days”, montaggio di riprese effettuate da dieci registi che uniscono i loro punti di vista su quell’episodio. E ancora “The Square”, che nel 2013 ha ottenuto la nomination all’Oscar nella categoria Documentari.
Esistono certo opere che partono da considerazioni opposte, fra cui “Clash” (2016), notevole claustrofobico/ironico dramma che si svolge interamente all’interno di un furgone della polizia, nel quale si trovano persone estremamente diverse fra loro, nei giorni del crollo del governo sostenuto dalla Fratellanza Musulmana. Il celebre regista Yousri Nasrallah affronta coraggiosamente anche il punto di vista di coloro che invece vivevano una condizione di normale benessere, durante il trentennio, mostrando in “Dopo la Battaglia” le ragioni di un agente di polizia coinvolto nella tragica “battaglia dei cammelli”, il giorno precedente la fuga di Mubarak.
Marouan Omara propone il documentario “Crop” con l’obiettivo del fotografo ufficiale di Al-Ahram, organo d’informazione del regime. Un’importante riflessione sul potere delle immagini e la censura di stato. Della censura Bassem Youssef, ex chirurgo diventato la principale voce della satira durante la rivoluzione, con il programma televisivo “El Barnameg”, offre un resoconto agghiacciante in “Tickling Giants” (Sara Taksler), la sua lotta contro la spietata censura imposta dai Fratelli Musulmani, pagata con l’esilio.
Da ricordare poi “Omicidio al Cairo”, una trama popolata da poliziotti corrotti, malviventi spietati ma onesti, uomini d’affari e di governo senza scrupoli, prostitute, e un intero campionario di accusa verso quello che era il periodo Mubarak.
In Siria, nuove idee dimostrano che non esistono solo massacranti serie televisive, ma anche proposte degne di essere diffuse oltre confine. La rivoluzione siriana, a cui è rapidamente seguita la guerra, ha fatto emergere voci che, in pieno conflitto, ricordano gli obiettivi iniziali delle proteste. Molti i documentari, pur criticati per la co-produzione straniera, ma alcune produzioni come “For Sama” (nomination all’Oscar) della giovane Enab Baladi, hanno riscosso successo unanime e meritato. Così come non va sminuita la forza i due documentari di Fares Fayyad (“Last men in Aleppo” e “The Cave”) sui crimini di guerra. Consigliati anche “House without doors” e “Still recording” (Avo Kaprelian e Saeed al-Batal/Ghiat Ayoub). E dallo Yemen ancora sconvolto dalla guerra giungono “Karama has no walls” e “Ten days before the wedding”, davvero notevoli.
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