Assadakah News Agency - Quello messo a segno ieri in Gabon è il settimo colpo di Stato nell’Africa occidentale in soli tre anni (l’ottavo se si include la transizione avvenuta in Ciad, grazie al sostegno dei militari). Eppure, i golpisti in divisa che hanno preso il potere in una capitale che si chiama ironicamente Libreville sembrano avere poco in comune con quelli che hanno scalzato presidenti più o meno democraticamente eletti in Mali (due volte, nel 2020 e ’21), Guinea, Burkina Faso (due volte nel 2022) e il mese scorso nel Niger. Infatti, nel caso del Gabon, non sembra di assistere a un putsch orchestrato con l’intervento esterno di potenze ostili all’Occidente come la Russia e – più indirettamente – la Cina. Qui i militari hanno agito sull’onda dell’esasperazione popolare dopo la diffusione di risultati elettorali che proclamavano vincente per l’ennesima volta in oltre mezzo secolo un membro della famiglia (ma sarebbe meglio dire: dinastia) Bongo.
Una dinastia che, nel classico cliché delle satrapie postcoloniali africane, lascia nella miseria gran parte della popolazione, riservando all’élite al potere la gran parte degli enormi proventi dell’estrazione di ricchezze naturali come petrolio, gas naturale, diamanti, metalli e legname pregiato. In pratica, anche se al momento è tutt’altro che chiaro chi sia il nuovo autoproclamato padrone del Paese, al popolo va benissimo essersi liberato di quelli vecchi, ormai odiatissimi.
Nessuno sa dunque come la nuova giunta (ammesso che sia in grado di stabilizzarsi al potere e che l’appello di Ali Bongo «agli amici di tutto il mondo» a «fare rumore» in suo sostegno non produca l’effetto di rimetterlo in sella) collocherà il Gabon a livello internazionale: per ora c’è solo la certezza dell’instabilità e non è cosa da poco. Perché si tratta comunque di un altro colpo inferto alla presenza francese in Africa occidentale, con il presidente Macron che già fatica a gestire un tracollo J storico in una regione che era appartenuta all’impero di Parigi fino a sessant’anni fa e che in seguito aveva continuato a esistere sotto mentite spoglie come «Françafrique», quella collezione di Stati africani deboli e corrotti in cui la Francia era abituata ad agire come nel cortile di casa propria, controllando le economie locali a partire da una moneta legata alla sua (il Franco Cfa) e mantenendo sul posto contingenti militari pronti a garantire equilibri antichi e collaudati.
Sappiamo cosa sta succedendo adesso in Africa occidentale. Le nuove autocrazie, dal Mali in poi, scacciano i francesi e aprono le porte ai russi, mentre Bruxelles si limita a condannare. Fanno venire, al posto dei militari di Parigi, i miliziani della Wagner ad aiutarli a combattere il terrore islamista e soprattutto a puntellare il loro potere illegittimo: a Putin – così come ai cinesi e diversamente dagli europei e dagli americani – nulla importa dei valori democratici dei suoi alleati africani, non pretende che si tengano inutili elezioni e incoraggia traffici di materie prime e armi che arricchiscono i satrapi locali e permettono a lui di aggirare le sanzioni occidentali imposte a Mosca per l’aggressione all’Ucraina. I popoli locali, che detestano tuttora gli ex colonialisti francesi, godono nel vedere scacciati questi ultimi e si bevono volentieri la falsa retorica della Russia erede dell’anticolonialismo d’epoca sovietica, amico dei popoli oppressi del Terzo Mondo.
Il prezzo di questi terremoti geopolitici, però, lo paghiamo pure noi italiani. Alla Russia fa comodo destabilizzarci anche facendo arrivare masse di migranti sulle coste nordafricane, che alimentano traffici umani la cui ricaduta è disastrosa sul nostro equilibrio economico, sociale e – in ultima analisi – politico. Un’evidenza che ai putiniani di casa nostra, palesemente, sfugge.
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