Assadakah - Sono tempi duri, carichi di rischi e insidie, eppure fra i banchi di scuola o tra pile di libri a casa, con l’aiuto della rete là dove Internet arriva, in Afghanistan c’è chi resta sul campo, non pensa a espatriare, non rinuncia a provaci.
Ha scelto di reagire così un’organizzazione per la promozione dell’istruzione, forte di contatti intessuti da tempo con leader tribali e religiosi, e di una fiducia conquistata tra la popolazione fin nelle aree più remote.
Con 2.400 volontari disseminati in molte province, la Ong afghana Pen Path riparte dopo il trauma che ha investito il Paese. Cerca spazi percorribili, varchi rimasti aperti nelle maglie delle rigide regole appena imposte. Nell’Emirato islamico le bambine possono frequentare la scuola se hanno tra i sei e i dodici anni. Quelle più grandi, per ora, restano a casa. È così in 28 delle 34 province. Le università private hanno riaperto con classi separate, gli atenei pubblici restano chiusi.
Non ha perso tempo, il fondatore di Pen Path, Matiullah Wesa. Il 16 agosto, all’indomani della presa di Kabul, è partito per raggiungere le province di Kandahar, Kunduz, Jalalabad, Kunar, Logar, Zabul. "Ho incontrato leader tribali e religiosi, insegnanti, studenti", racconta. "Ho ricordato loro che la scuola è un diritto fondamentale, un diritto islamico (per il profeta Maometto l’istruzione è un obbligo per bambini e bambine). Li ho rassicurati che il nostro lavoro sarebbe continuato. Da loro ho avuto la promessa che avremmo proseguito insieme".
Nel team di Pen Path lavora Zarlasht Wali, insegnante oggi impegnata su due fronti: "Incontro le famiglie di ragazze a cui, per l’età, non è permesso il rientro a scuola: molte, le più dotate, hanno subito un contraccolpo emotivo. La loro salute mentale è a rischio», racconta da Kabul. «Parlo con le ragazze, le incoraggio, le invito a studiare da casa, a seguire lezioni online, modalità già sperimentata con la pandemia. Le famiglie conoscono Zoom e Google Classroom», come le altre app per la formazione. Dico loro che imparare non significa necessariamente mettere piede in una classe".
La professoressa Wali opera anche con le bambine più piccole, quelle che potrebbero presentarsi a scuola ma non lo fanno: "Avvicino i genitori per convincerli a riportare le figlie fra i banchi. Non le mandano perché non si sentono sicuri o perché con la crisi non se lo possono più permettere". Il calo degli studenti è consistente: "La frequenza in due scuole primarie di cui ho notizia a Kabul è passata da 650 alunni a 320. Parliamo di classi in cui le bambine sono ammesse. Il danno è per tutto il sistema".
Intanto, Pen Path ha avviato una campagna social che vede capi villaggio e leader tribali “metterci la faccia», con foto postate online accompagnate da cartelli con l’invito rivolto ai talebani a riaprire gli istituti scolastici, sia quelli appena vietati alle ragazze, sia quelli sigillati da vent’anni perché in zone di guerra. «Invitiamo la popolazione a scrivere al ministero dell’Istruzione per riaprirle, a fare pressione per registrarne di nuove”, aggiunge Matiullah Wesa, che ripone grande fiducia nel “potere delle persone” e sa quanto i talebani siano attenti ai social network. “In giro per il Paese incontriamo insegnanti e studenti, li troviamo spesso privi di speranze”, aggiunge, ma lui è certo che la speranza c’è: “Alle persone diciamo che hanno un grande potere e che possono esercitarlo facendo pressione su chi governa. I talebani devono sapere che l’istruzione appartiene alla popolazione. Non possono non ascoltare la grande voce che proviene da lì”. (fonte F.Ghirardelli)
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